C'era una volta...








La storia di un antico popolo

C’era una volta, trentamila anni fa. Un popolo nomade viveva dalle parti della Mongolia, nel cuore dell’Asia, e percorreva in lungo e in largo le sue grandi pianure spazzate dal vento. Era numeroso e forte, si sostentava col raccolto di piante e frutti selvatici e con la caccia agli animali che popolavano quel vasto territorio, prima che il freddo ne divenisse il padrone assoluto e ne facesse il regno di gelide steppe.

Le sue migrazioni erano guidate dal bisogno di nutrirsi, dalla ricerca di luoghi accoglienti a clima mite e di rifugi sicuri per la notte. Sapeva leggere nel vento, farsi guidare dagli odori e interrogava la forma delle nuvole e tutti i mutamenti del cielo per conoscere il suo destino, quello dell’oggi e dell’immediato domani.

Camminava a piedi, instancabile, seguendo branchi di animali in transumanza o dirigendosi verso un punto dell’orizzonte più rigoglioso ma anche più familiare, dove era già stato in altre stagioni o dove già erano stati i suoi padri.

Su quelle pianure sterminate il tempo scorreva immutabile e rassicurante, lasciando che il sole si alternasse alla pioggia e la terra si gonfiasse di vita a primavera e si riposasse in inverno nel gioco eterno delle stagioni. Da migliaia di anni gli uomini dalla pelle bruna che le abitavano sapevano quando partire e quando fermarsi, quando cacciare e quando riposare, quando tornare e quando ripartire. La terra e il cielo si occupavano di loro come un padre e una madre severi ma prodighi di vita, ed essi imparavano a temerli e a venerarli.

La loro progenie veniva al mondo nu­merosa, con piccoli occhi allungati e una macchia scura nella parte bassa della spalla, che spariva dopo qualche anno, come accade ancora oggi ai neonati di quella regione dell’Asia e ai piccoli degli indigeni di tutta l’America con la cosiddetta “macchia mongolica”, a riprova inoppugnabile di comuni antiche radici.


Finché tutto cambiò...


Finché arrivò un giorno, diverso da tutti gli altri, in cui tutto cominciò a trasformarsi, lentamente ma inesorabilmente, e niente fu più come prima. Il sole impallidì, quasi scomparve. Pervasive mani invisibili trasformarono tutto in gelo e uno spesso mantello di ghiaccio s’impossessò di quell’area del mondo, rendendola invivibile per gli uomini, gli animali ed ogni altra forma di vita.

La terra che quel popolo di cacciatori-raccoglitori aveva conosciuto in tutta la sua vastità e che gli era stata così a lungo madre, dove aveva trovato ciò di cui aveva bisogno per generazioni e generazioni, non offrì più accoglienza a niente e a nessuno, perché divenne ostile ad ogni cosa viva. Un luogo immobile e senza colori, gelido e senza suoni. Solo il vento lo attraversava e una notte spettrale vegliava il suo silenzio. Inseguito da un inverno senza fine, dunque, dovette iniziare un lungo, nuovo cammino verso terre che non aveva mai conosciuto, sapendo che non ci sarebbe più stato ritorno.

Per lunghi e difficili anni si diresse faticosamente in direzione del nord, superando i monti Tannu Ola e il massiccio degli Hentej, tra i cui ghiacci lasciò una dolorosa scia di morte, soprattutto di vecchi e bambini, in una lunga marcia per la vita che risparmiò solo i più forti. Poi, persi­stendo nel tentativo di sfuggire alle insidie di quelle terre inospitali sempre più flagellate dal freddo, dovette piegare verso est.

Stremato dalla fatica, dal freddo e dalla fame, attraversò a piedi gli ottanta chilometri dello stretto di Bering quando il suo mare, per effetto della glaciazione, era diventato un solido ponte di ghiaccio. Da lì si diresse verso sud, riversandosi come una inarrestabile macchia d’olio lungo tutto il continente americano. Ebbe così inizio l’odissea di un cammino che sarebbe durato decine di migliaia di anni.


Le tracce attraverso le Americhe


Quando la sua popolazione diventava numerosa in un luogo e la convivenza si faceva più difficile, un gruppo più giovane si staccava, secondo la tradizione dei suoi avi, e si dirigeva verso sud per occupare nuove terre, verso nuovi grandi spazi. E così di seguito per migliaia e migliaia di anni, fino a toccare la Patagonia e la Terra del fuoco, l’estremo lembo sud del continente.

Nell’ultimo secolo, archeologi e antropologi hanno seguito le tracce di quella migrazione transepocale e ne hanno registrato i passaggi nel tempo, descrivendo a grandi linee il percorso e le tappe dell’epico viaggio, che avvenne tra il tardo pleistocenico e l’era olocenica.

Nel Nord America, dove la prima presenza umana è databile a trentamila anni fa, quel popolo dette vita alle grandi tribù pellerossa che abbiamo conosciuto durante l’epopea del West, come gli Irochesi e i Cherokee, e le tribù delle grandi pianure come i Comanche e gli Cheyenne, che conservarono alcuni importanti caratteri del nomadismo, vivendo essenzialmente di caccia, raccolta e qualche volta anche di pesca.

In Centro America, dove i resti più antichi risalgono a venticinquemila anni fa, ci fu la maggiore concentrazione umana e sorsero le più grandi civiltà del continente, tra cui quella atzeca e quella maya.

Al Sud, che popolò progressivamente tra i ventimila e i diecimila anni fa, lasciò indelebili tracce di sé attraverso la civiltà Inca che, nata sulla Cordigliera delle Ande, si diffuse poi in un impero che interessò gran parte delle regioni sudamericane.

Tuttavia, tra tutti i popoli del nuovo continente derivati da questa etnia, che all’epoca della colonizzazione europea si ritiene ammontassero fino a 90 milioni di individui, il popolo maya è quello che è rimasto più avvolto nel mistero, perché ha lasciato aperti ancora molti interrogativi sulla sua storia e sulla scomparsa repentina della sua grande civiltà.

“Dall’altro lato del mare arrivammo ad un luogo chiamato Tulan, dove fummo generati e partoriti dalle nostre madri e dai nostri padri…”, si legge negli antichi Annali dei Cakchiquels.

“La gente arrivò a Tulan da quattro posti. Ad est c’è una Tulan, un’altra è a Xilalbay - il sottomondo; un’altra a ovest, da dove venimmo noi stessi, ed un’altra è dove è Dio - in cielo, in alto”, è la metafora enigmatica del libro maya, dove Tulan sembrerebbe un luogo ma anche una dimensione dello spirito.

Essendo andati distrutti quasi tutti i suoi libri sacri e tutti quelli scientifici, la storia maya è ormai rintracciabile quasi soltanto nelle sue città abbandonate, che si incontrano tra la penisola dello Yucatan e l’Honduras, per cui ancora oggi si stenta a penetrare nei lunghi silenzi di cui è punteggiata la sua vicenda plurimillenaria.

Ci sono molte cose che affascinano nelle rovine di Palenque, di Bonampak, di Chichén Itzà e delle altre città maya, immerse come sono in una specie di splendido isolamento naturalistico. Rispetto alle altre civiltà coeve con cui pure furono in contatto, il loro stile artistico è ritenuto particolarmente raffinato e unico.

Isolato nelle giungle del Centro America, questo popolo ci appare tanto riservato quanto culturalmente elevato. Le sue maestose piramidi sovrastano le foreste degli altopiani, e le piazze finemente progettate, con i centri cerimoniali ornati con gusto di pietre scolpite e iscrizioni geroglifiche, sembrano volerci raccontare i fasti di un mondo davvero assai remoto e sussurrarci qualcosa di un mistero non ancora svelato.


La scomparsa dei Maya classici


Nell’anno 830 dopo Cristo, infatti, dopo cinque-seicento anni di intenso sviluppo, ci fu un evento, ancora misterioso, che costrinse i maya ad abbandonare le loro più grandi città e a far perdere ogni traccia di sé. Cessarono le costruzioni e la loro ossessiva registrazione periodica di date ed eventi sui monumenti. Il loro mondo fu inghiottito dalla foresta e rimase nascosto alla conoscenza dell’uomo fino a 150 anni fa.

Non fu né una guerra, né un’epidemia a determinare la sua scomparsa, perché i suoi siti non sono stati trovati distrutti o danneggiati e non c’è alcun ritrovamento che faccia minimamente pensare a fatti di questo tipo e di tale portata. È molto più probabile che si sia trattato di un esodo improvviso dovuto a un evento climatico insostenibile, come il rapido e forte surriscaldamento di quelle terre e una conseguente micidiale siccità, fenomeno che nel nostro ecosistema si è presentato altre volte nel passato e in altri luoghi della terra.

Ma sui maya e sui loro enigmi, la fantasia degli studiosi ha elaborato le ipotesi più incredibili, fino a farli diventare un popolo proveniente, non si sa come, da qualche altra zona della nostra galassia.

Non solo l’arte e l’architettura fanno della civiltà maya una delle più grandi mai raggiunte dall’umanità, ma anche le sue conoscenze scientifiche sono stupefacenti.

Fin dal 3000 avanti Cristo, infatti, essi avevano misurato con precisione sorprendente il tempo, calcolando la durata della rivoluzione della Terra intorno al sole con uno scarto di un millesimo di punto decimale rispetto alle misurazioni della scienza moderna e senza i nostri strumenti di precisione. Il calendario solare constava di 18 mesi di 20 giorni ciascuno, con 5 giorni addizionali, considerati “giorni di sonno, inutili o di riposo” (18 x 20 + 5 = 365).

Inoltre avevano elaborato calendari dei cicli della Luna e delle eclissi, calendari con il computo delle rivoluzioni sinodiche e le sincronizza­zioni dei cicli di Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno. Infine avevano calcolato, non si sa perché, grandi cicli di tempo di circa cin­quemila anni, divisi a loro volta in 13 cicli più piccoli, chiamati ba­ktun, di poco meno di 400 anni.

L’inizio del “Grande ciclo maya”, in particolare, lo situarono in una data compresa tra il 6 e il 13 agosto del 3113 avanti Cristo, che nella cronologia maya si scrive 13.0.0.0.0, e doveva terminare 5125 anni dopo, il 21 dicembre del 2012 d.C., quando la data si sarebbe scritta allo stesso modo: 13.0.0.0.0. Secondo questo computo, oggi il loro calendario dovrebbe segnare l’anno 5120,

Nell’830, dunque, si conclude l’era Classica maya e un secolo più tardi inizia, in un’altra zona del Centro America, nel nord dello Yucatan, un’era in cui i maya si mescolano a vicini popoli messicani e formano la Lega di Mayapan, dando vita a un periodo buio fatto di guerre continue e di un crescente ricorso a sacrifici umani rituali.

Quando i conquistatori spagnoli, brandendo la spada e la croce cristiana, arrivarono sulle terre del Chiapas, era il 1523. Gruppi indigeni occupavano la zona di Chiapa de Corzo e la riva sinistra del Rio Grande, in prossimità del Sumidero, il grande cañon dalle pareti a strapiombo sul fiume, alte più di mille metri, nel cui salto si sa che centinaia di indios, soprattutto donne e bambini, trovarono la morte nel tentativo di sfuggire all’offensiva spietata degli invasori spagnoli.

Chiapas, in lingua indigena nàhuatl significa terra che sta “sopra l’acqua di sotto”, ad indicare la prima residenza dei suoi abitanti presso la scarpata del Sumidero, dove l’acqua del grande fiume Grijalva stra­ripava.

Da alcuni popoli vicini, i chapanechi furono chiamati anche “soctones”, cioè “tiratori di pietre”. Ma in tutte le dodici lingue locali derivanti da quella maya, essi si sono sempre chiamati “hach winik”, “uomini veri”.

Nella solennità di alcuni riti sopravvissuti alle molteplici contamina­zioni culturali e sui volti ineffabili dei loro attuali discendenti - come resti viventi di pietre scol­pite e di orgogliose architetture di antiche città abbandonate - oggi è ancora conservato in qualche modo quel che ri­mane della storia e del fitto mistero di uno dei popoli più antichi della terra.

(da "Il mondo sospeso" di F. Dragone)

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